Abbiamo più bisogno di leader informati o sapienti?
Il buon senso e il desiderio inducono a rispondere
che se i leader che incontriamo
e che ci guidano
possedessero entrambe le qualità sarebbe una vera fortuna.
Ma talvolta dobbiamo constatare che non è così.
Il tempo nel quale viviamo tende a mettere in ombra
la seconda dimensione a vantaggio della prima.
Nel mondo dell’informazione,
la sapienza sembra aver perso di significato e di valore.
Di significato perchè non è più così chiaro di che cosa si tratti;
di valore, perché non produce, nel breve,
risultati tangibili in termini di ritorno economico.
Ciò che più conta, per la modernità
e per la lotta che essa impone,
non è la sapienza, ma l’informazione, il dato;
non più dunque l’essenza delle cose,
ma il loro peso, la loro velocità, la loro materiale consistenza.
Non il valore intrinseco, ma il valore aggiunto.
Ma di che cosa parliamo quando diciamo “sapienza”?
“Sapienza è il sapere del sapere,
ossia la conoscenza degli ultimi fondamenti
e principi dell’essere e della vita.
Con ciò è data anche l’intelligenza del nesso del singolo con il tutto”.
La sapienza non è dunque una questione di quantità
di informazioni possedute o di nozioni immagazzinate, perché:
“non mira al molto sapere,
ma all’intelligenza degli ultimi principi dell’esistenza.
Saggio deriva da sapere e sapere da vedere.
Il saggio, dunque, è colui che ha visto molto,
che ha penetrato gli abissi della vita, che intravede,
scorge l’essenza delle cose.
Saggio è considerato l’uomo che conosce le cose
nel loro nesso reciproco, che domina i nessi,
conosce come nel profondo tutto è reciprocamente collegato”.
Sapiente è colui che, cogliendo con lucidità
le connessioni fra gli eventi, le cause e gli effetti,
trae insegnamenti dai risultati e acuisce la propria consapevolezza,
come in una spirale progressiva nella quale
l’azione alimenta la conoscenza e viceversa.
Come osserva Romano Guardini:
“… le cose non procedono
nel senso che prima le si conosca interamente
e poi si agisca in conformità ad esse,
ma conoscere e agire convergono in unità.
Dapprima si conosce poco.
Se si agisce secondo questo poco, la conoscenza cresce,
e dalla conoscenza crescente scaturisce un agire potenziato.
”Il sapiente non è dunque,
come si sarebbe tentati di credere,
un uomo di attesa, bensì di azione.
Non si trastulla nella meditazione
che non sfocia mai nell’agire,
ma dall’azione trae spunti di conoscenza.
Non è un teorico estraneo alle concrete necessità dell’esistenza
e della professione, ma è persona dall’attenzione ben focalizzata.
Si pone domande. Osserva la realtà e ne legge i segni.
Soprattutto si pone domande orientate a cogliere innanzitutto i perché.
La scienza e la tecnica ci suggeriscono ogni giorno domande sul come:
“come funziona?”, “come si fa?”, “come si dice?”,
ma decisamente meno ci stimolano a domande sui perché,
presunte inutili e poco funzionali.
Eppure, come sostiene Luigi Alici
“Come : perché = scienza : sapienza”.
Di quale sapienza ha dunque bisogno oggi un leader?
Quali pensieri dovrebbero guidarlo?
Se è vero che il sapiente vede ciò che ai più sfugge,
le sue riflessioni dovrebbero indicare verso quale orizzonte
ci si sta dirigendo e quali correzioni di rotta occorre apportare.
Il pericolo più incombente che segna il nostro tempo
è lo stile di vita che ci sta fagocitando,
uno stile rampante, competitivo, a volte aggressivo;
uno stile che incorona vincente chi arriva primo;
uno stile segnato dal culto della prestazione,
nel quale non c’è molto spazio
per la qualità e la profondità delle relazioni,
per l’azione dei mediatori
e dei costruttori di ponti dallo sguardo lungo;
uno stile nel quale tutto si riconduce
all’azione e alla rapidità;
uno stile narcotizzante,
che stiamo accettando in modo acritico
e di cui non riusciamo a scorgere i rischi,
a partire da quello della disumanizzazione dei rapporti.
Diceva, in un convegno ad Assisi nel Natale del 1994,
Alexander Langer, primo presidente del Gruppo Verde del Parlamento Europeo: “Voi sapete il motto che Pierre de Coubertin ha riattivato per le olimpiadi:
citius, più veloce; altius, più alto; fortius, più forte.
Questo è il messaggio che oggi ci viene dato.
Io vi propongo il contrario:
lentius, più lento;
profundius, più profondo;
suavius, più dolce.
Con questo motto non si vince nessuna battaglia frontale,
però si ottiene un fiato più lungo.”
A questo nostro tempo manca proprio il fiato dell’etica,
della prospettiva di lungo termine,
della visione consapevole delle conseguenze di ciò che si fa,
del senso da attribuire all’azione e al risultato.
E così l’etica diventa etichetta, galateo morale,
sommatoria di regole piccole per un “bon ton” di largo consumo.
Il sapiente sa guardare oltre.
Quando parla di bilancio, lo coniuga al plurale:
esistono vari bilanci, sebbene alcuni fra essi non possano essere scritti
e riguardino dimensioni cosiddette intangibili,
come la fedeltà ai principi e il rispetto delle regole.
Nel lungo periodo il bilancio economico,
quello che sembra contare di più
e che d’altra parte garantisce la sopravvivenza dell’azienda,
sarà significativamente influenzato dagli altri bilanci.
Solo una visione miope e di corto respiro non riesce a comprenderlo.
Non è un caso, del resto, che le aziende che realizzano i maggiori profitti
siano quelle i cui valori sono chiari e condivisi e rispettati.
Il sapiente, infine, sapendo andare al centro delle questioni,
e cogliendone l’essenza, ha la capacità di semplificare,
che non vuol dire banalizzare.
Oggi pare che la complessità sia la condizione
che conferisce prestigio all’azione e ne determina il valore;
ciò che è semplice non ha qualità e peso.
Ora, si tratta di capire se tutto ciò che è complesso
non sia invece soltanto complicato,
cioè deliberatamente reso e macchinoso da un’esigenza di autostima,
di immagine o di marketing.
Semplificare può rivelarsi utile
per ricondurre le cose
alla loro dimensione reale,
alla loro effettiva necessità
e dunque per ritrovarne il senso.
Scrive Sebastiano Zanolli, direttore commerciale di Diesel Italia:
“Se ora mi chiedo se la semplicità conviene,
la risposta è sì.
La semplicità significa facilità di comprensione,
d’uso, di gestione di cose
e di processi.
Quindi maggiore fruibilità di ciò che rende soddisfatti e,
per caduta, maggiore felicità.
E non significa che lo sforzo per produrla
sia necessariamente intuitivo o leggero.
La semplicità costa perché vale.
Conviene perché l’alternativa costa uguale e rende meno felici.
La complicazione è spesso un artificio di marketing di privati e imprese
in epoca di concorrenza globale
e non sempre i risultati rispettano la promessa di felicità fatta.
Ma se è un valore e ha un costo serve decidere e perseguirla.
Nelle piccole e grandi scelte quotidiane.
Ma, ripeto, costa.
Costa riconoscere che tutto quello che serve in verità
è molto meno di quello che crediamo.
L’essenza della semplicità è il riconoscimento del poco che siamo
e del poco che necessitiamo;
della sovrastruttura che usiamo per crederci potenti e,
con scarse prospettive, immortali.
Un brutto risveglio per un re del creato che si è così evoluto.
Sento qualcuno lamentarsi che per guadagnare la semplicità serve disciplina. Credo proprio di sì.
La confusione è gratis.
La complicazione può costare,
ma spesso la vendono con un congruo sconto.
La semplicità, di questi tempi, no.
E c’è anche un sovrapprezzo per portarla a casa.
Si chiama chiarezza.
E qui ognuno deve arrangiarsi da sé.
A volte è la chiarezza che trova noi,
ma solo quando abbiamo camminato abbastanza
da ritornare quello che eravamo all’inizio.
Prima della grande abbuffata. …
Sarà sempre bene ricordarsi che proprio perché grande,
confuso e interconnesso,
questo pianeta ha bisogno di gente
che sappia che il proprio bene è contenuto
anche nel bene del prossimo.
Gli altri sono già diventati noi o forse lo sono sempre stati.”
Sebastiano Zanolli, Semplice senza scherzi, www.managerzen.it
Teorie delle decisioni
-
Un tentativo di una tassonomia delle teorie delle decisioni. Una, modesta,
bussola, insomma.
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1 mese fa
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