Non so voi ma quando succedono certe cose divento malinconico e mi guardo indietro alla ricerca di agganci, appigli, prati su cui riposare.
E’ morto Giovanni.
Giovane per morire.
Giovane per morire male.
Giovane per sapere di doversene andare.
Giovanni, bambino con me.
Nelle foto in bianco e nero, l’unico che sta guardando altrove senza fissare con lo sguardo il severissimo fotografo che ci fa stare seri ed impettiti come piccoli gessetti sdentati.
Giovanni non ha avuto la vita facile.
Certo no.
Un po’ perché và così un po’ perché te lo scegli tu.
Un po’ perché anche gli anni ’70 hanno avuto il loro precari dell’anima e del portafogli.
Giovanni non aveva una vita facile:
Lo si capiva dalla giacchina nera sbrindellata che aveva già scelto una strada differente.
Da tutte quelle sgualciture sugli angoli dei libri che tanti di noi trattavano religiosamente con fossero il Santissimo Sacramento.
Lui no.
Giovanni in caduta già dal quel sonno stanco che lo colpiva e da una certa rassegnazione negli occhi spesso tristi.
Giovanni non era peggio né meglio.
Era un figlio del mondo. Come me. Come tanti.
Poi gli amici alcuni buoni, altri meno. Come tanti.
Appena ti distrai vincono quelli meno buoni.
Dovresti essere stato più veloce a capire Giovanni.
Ma non ti piaceva aspettare, non ci vedevi il senso. E nessuno riusciva a fartelo vedere.
Poi tutto quello che ti premia a breve e ti ruba l’anima a lungo.
Il Bar come famiglia.
Il pusher come amico.
Sempre più lontano da tutto.
Sempre più vicino al niente.
Poi la malattia guadagnata, come si guadagnano i premi dal benzinaio a forza di fare i pieni.
Malattia sempre più cupa, sempre più triste.
Tu sempre più solo.
Ed eccoci qui, con un vecchio catorcio a portarti via nella cassa di abete, che in fin dei conti costa meno.
E mi chiedo perché non è andata meglio di così?
Dove stava il punto di non ritorno?
Perché qui non c’è nessuno che sorrida, magari mestamente, ma che almeno sorrida, come quando si sa che sei andato a stare meglio di prima.
E perchè siamo in quattro gatti dispersi e staccati a vedere che te ne vai?
No certo non è una festa, ma dovrebbe essere meglio di così.
Sono arrabbiato.
Arrabbiato con gli uomini, che si permettono di buttare via quel po’ di divino che abbiamo dentro.
Di nasconderlo così bene da poi bestemmiare perché non lo trovano
E che ora te ne stai andando con il catorcio e la cassa d’abete mi prudono le mani.
Senza nemmeno lasciare un segno, una lezione, una cicatrice con cui tenere a mente che la vita dà quello che chiedi.
Ma forse sono anche arrabbiato con te Giovanni.
Con te che mi hai offerto di fumare quando ero un bambino troppo piccolo per capire che non c’è fretta nel diventare grandi se diventare grandi significa sbattersi tutto il giorno per un pezzo di fumo marcio.
Con te che hai deciso che era una figata farsi di nascosto dietro il campo parrocchiale mentre gli altri sudavano in interminabili partite di calcio.
Con te che mi dicevi che ero troppo serio e mi facevi sentire un imbecille perché studiavo.
Con te che hai preso a calci il tuo fegato fino a fartelo venire fuori vomitando.
E non ti ho visto mai felice.
E non hai mai riso di gusto.
E questo mi fa arrabbiare.
Arrabbiare anche con me.
Già , perché dovevo essere più forte.
Più duro o tenero o convincente.
Dovevo venderti qualcosa che mi sembrava giusto e non lasciarti vendere a me,a te, la paccottiglia adolescenziale che sembrava rivolta ma era solo pigrizia mentale condita di niente.
Dovevo alzarmi diritto sulla schiena perchè ti aggrappassi anche tu.
Ma chissà poi se tu lo volevi davvero o avevi già deciso.
Se cercavi una fine che sembra eroica ma che è solo triste e che lascia tutti senza un pezzo e le onoranze funebri con un po’ di fatturato in più.
E forse tutto va come deve andare.
Dove…deve andare.
Si, forse qualcuno avrà anche un po’ di responsabilità ma non posso non pensare a quante volte hai avuto la possibilità di cambiare via, di cambiare amici, di dire no alla sfiga.
Di smettere di sfottere Luca perché la mamma lo faceva vestire tanto e non lo lasciava giocare a pallone perché non si ammalasse.
Anche lui aveva le sue rogne.
Anche lui era un figlio del mondo.
E anche lui voleva dire si o no, da solo.
Senza mamma, senza me, senza te.
Si Giovanni.
Hai ragione.
Non si parla male dei morti, ma visto che mi senti magari puoi aiutarmi a fare qualcosa.
Fai sentire che si può fare altrimenti.
Che nascere con dei guai non è una condanna ma solo una condizione. Triste, ma sempre e solo una condizione.
Che la sfiga è prima di tutto una compagna che si sceglie.
Una amante di lusso che mantieni.
E che una volta viziata non ti lascia più e ti chiede conti sempre più grandi.
Faglielo apparire in sonno ai ragazzini di oggi che è più facile dire subito di si che dire di no, ma che è più difficile vivere con le conseguenze di quei si che con le conseguenze di quei no.
Diglielo con il vento e con le foglie degli alberi che la vita è piena di stronzi che godono di immergerti nella loro fogna per stare meno soli ma che c’è anche gente che ti lascia fare la doccia a spese loro, così, solo per darti una mano.
Che chi frequenti è scelta tua.
Che sputare il fegato in fin di vita davanti a due infermieri che aspettano di smontare dal turno e che nemmeno sanno come ti chiami non ha niente di glorioso e non ti fa sentire una rockstar.
Ti guardo andare via e sto male, perché è un altro pezzetto del mio mondo che se ne va con te.
Proprio come deve andare.
Avrei voluto tutto un altro mondo quando guardavo”Avventura” alla tivù da bambino.
Quando ascoltavo Tito Stagno, così bravo, così serio, così capace, immaginavo che avrei risolto i problemi di tutti.
Non era così scontato.
Per questo provo e riprovo.
Non ho risolto il tuo Giovanni.
Non lo hai risolto tu.
Una lezione per ripartire.
Fino all’ultimo.
Fai un buon viaggio.
Ci vediamo di sicuro.
E’ morto Giovanni.
Giovane per morire.
Giovane per morire male.
Giovane per sapere di doversene andare.
Giovanni, bambino con me.
Nelle foto in bianco e nero, l’unico che sta guardando altrove senza fissare con lo sguardo il severissimo fotografo che ci fa stare seri ed impettiti come piccoli gessetti sdentati.
Giovanni non ha avuto la vita facile.
Certo no.
Un po’ perché và così un po’ perché te lo scegli tu.
Un po’ perché anche gli anni ’70 hanno avuto il loro precari dell’anima e del portafogli.
Giovanni non aveva una vita facile:
Lo si capiva dalla giacchina nera sbrindellata che aveva già scelto una strada differente.
Da tutte quelle sgualciture sugli angoli dei libri che tanti di noi trattavano religiosamente con fossero il Santissimo Sacramento.
Lui no.
Giovanni in caduta già dal quel sonno stanco che lo colpiva e da una certa rassegnazione negli occhi spesso tristi.
Giovanni non era peggio né meglio.
Era un figlio del mondo. Come me. Come tanti.
Poi gli amici alcuni buoni, altri meno. Come tanti.
Appena ti distrai vincono quelli meno buoni.
Dovresti essere stato più veloce a capire Giovanni.
Ma non ti piaceva aspettare, non ci vedevi il senso. E nessuno riusciva a fartelo vedere.
Poi tutto quello che ti premia a breve e ti ruba l’anima a lungo.
Il Bar come famiglia.
Il pusher come amico.
Sempre più lontano da tutto.
Sempre più vicino al niente.
Poi la malattia guadagnata, come si guadagnano i premi dal benzinaio a forza di fare i pieni.
Malattia sempre più cupa, sempre più triste.
Tu sempre più solo.
Ed eccoci qui, con un vecchio catorcio a portarti via nella cassa di abete, che in fin dei conti costa meno.
E mi chiedo perché non è andata meglio di così?
Dove stava il punto di non ritorno?
Perché qui non c’è nessuno che sorrida, magari mestamente, ma che almeno sorrida, come quando si sa che sei andato a stare meglio di prima.
E perchè siamo in quattro gatti dispersi e staccati a vedere che te ne vai?
No certo non è una festa, ma dovrebbe essere meglio di così.
Sono arrabbiato.
Arrabbiato con gli uomini, che si permettono di buttare via quel po’ di divino che abbiamo dentro.
Di nasconderlo così bene da poi bestemmiare perché non lo trovano
E che ora te ne stai andando con il catorcio e la cassa d’abete mi prudono le mani.
Senza nemmeno lasciare un segno, una lezione, una cicatrice con cui tenere a mente che la vita dà quello che chiedi.
Ma forse sono anche arrabbiato con te Giovanni.
Con te che mi hai offerto di fumare quando ero un bambino troppo piccolo per capire che non c’è fretta nel diventare grandi se diventare grandi significa sbattersi tutto il giorno per un pezzo di fumo marcio.
Con te che hai deciso che era una figata farsi di nascosto dietro il campo parrocchiale mentre gli altri sudavano in interminabili partite di calcio.
Con te che mi dicevi che ero troppo serio e mi facevi sentire un imbecille perché studiavo.
Con te che hai preso a calci il tuo fegato fino a fartelo venire fuori vomitando.
E non ti ho visto mai felice.
E non hai mai riso di gusto.
E questo mi fa arrabbiare.
Arrabbiare anche con me.
Già , perché dovevo essere più forte.
Più duro o tenero o convincente.
Dovevo venderti qualcosa che mi sembrava giusto e non lasciarti vendere a me,a te, la paccottiglia adolescenziale che sembrava rivolta ma era solo pigrizia mentale condita di niente.
Dovevo alzarmi diritto sulla schiena perchè ti aggrappassi anche tu.
Ma chissà poi se tu lo volevi davvero o avevi già deciso.
Se cercavi una fine che sembra eroica ma che è solo triste e che lascia tutti senza un pezzo e le onoranze funebri con un po’ di fatturato in più.
E forse tutto va come deve andare.
Dove…deve andare.
Si, forse qualcuno avrà anche un po’ di responsabilità ma non posso non pensare a quante volte hai avuto la possibilità di cambiare via, di cambiare amici, di dire no alla sfiga.
Di smettere di sfottere Luca perché la mamma lo faceva vestire tanto e non lo lasciava giocare a pallone perché non si ammalasse.
Anche lui aveva le sue rogne.
Anche lui era un figlio del mondo.
E anche lui voleva dire si o no, da solo.
Senza mamma, senza me, senza te.
Si Giovanni.
Hai ragione.
Non si parla male dei morti, ma visto che mi senti magari puoi aiutarmi a fare qualcosa.
Fai sentire che si può fare altrimenti.
Che nascere con dei guai non è una condanna ma solo una condizione. Triste, ma sempre e solo una condizione.
Che la sfiga è prima di tutto una compagna che si sceglie.
Una amante di lusso che mantieni.
E che una volta viziata non ti lascia più e ti chiede conti sempre più grandi.
Faglielo apparire in sonno ai ragazzini di oggi che è più facile dire subito di si che dire di no, ma che è più difficile vivere con le conseguenze di quei si che con le conseguenze di quei no.
Diglielo con il vento e con le foglie degli alberi che la vita è piena di stronzi che godono di immergerti nella loro fogna per stare meno soli ma che c’è anche gente che ti lascia fare la doccia a spese loro, così, solo per darti una mano.
Che chi frequenti è scelta tua.
Che sputare il fegato in fin di vita davanti a due infermieri che aspettano di smontare dal turno e che nemmeno sanno come ti chiami non ha niente di glorioso e non ti fa sentire una rockstar.
Ti guardo andare via e sto male, perché è un altro pezzetto del mio mondo che se ne va con te.
Proprio come deve andare.
Avrei voluto tutto un altro mondo quando guardavo”Avventura” alla tivù da bambino.
Quando ascoltavo Tito Stagno, così bravo, così serio, così capace, immaginavo che avrei risolto i problemi di tutti.
Non era così scontato.
Per questo provo e riprovo.
Non ho risolto il tuo Giovanni.
Non lo hai risolto tu.
Una lezione per ripartire.
Fino all’ultimo.
Fai un buon viaggio.
Ci vediamo di sicuro.
7 commenti:
Leggo e la tristezza mi assale...è una storia che purtroppo conosco e penso al mio di Giovanni...no..lui non si chiamava così... si chiamava Roberto... ma la storia è la stessa e così il suo finale...
Fai buon viaggio Giovanni.
dosi
Quanta tristezza negli occhi che passano, in quelli che incrociamo solo per un attimo e purtroppo anche in quelli che ci restano accanto per più tempo. A volte mi chiedo chi abbia ragione. E' facile dire che la vita è bella e vale la pena di viverla. Certo. Ma non sempre, ammettiamolo, la pensiamo così.
Sai qual è la cosa più triste? Il non poter tornare indietro. Non avere un clone di noi stessi capaci di viaggiare nel tempo come John Titor, acchiappare per i capelli il nostro sè bambino, adolescente, adulto che sia e urlargli in faccia : "Cazzo, vivi! Ma ti rendi conto di che ricchezza che hai, proprio adesso, in questo preciso momento? Domani, un domani non molto lontano, pensando al momento preciso che stai vivendo adesso, e che tanto disprezzi, dirai : Ah, se tornassi indietro..farei questo e questo e questo..e non farei quest'altro, e quest'altro...e guarderai le foto di quando eri più giovane e corrucciato, dicendo :Ah, se potessi adesso avere quell'età..sarei felice anche solo per il fatto di essere così giovane!"
Balle. Tutte balle. Non saresti stato felice, per il semplice fatto che quel momento NON LO AVEVI ANCORA PASSATO. Sembra quasi una terribile maledizione umana, quella del senno di poi. Condannati ad essere infelici nell'attimo presente e a rimpiangere di esserlo stati anche solo un attimo dopo.
La felicità dell'attimo fuggente è una condizione di leggerezza difficilissima da ottenere.
Forse la otterremo solo col prossimo salto quantico...:)
Belli i tuoi post.
Anna
Ciao Seba.
Una delle orazioni funebri più intense e vere e commoventi che abbia mai letto.
Se Shakespeare avesse potuto leggerla, quella di Antonio sulla salma di Cesare sarebbe venuta fuori ancora più vera, scommetto.
Ora: che dire?
Grazie di averla condivisa, dando la possibilità, a chi vuole (dovrei forse dire: ha il coraggio di) leggere oltre le parole, di riflettere. Riflettere su ciò che passa e va e non torna, ma lascia un segno che pare eterno, mentre eterno non è: vero che la vita è dura, e soprattutto per qualcuno, però scegliere si può, sempre.
Ma c'è un problema: bisogna farlo al momento giusto, altrimenti è come quando da bambino ti lanciavi giù da una discesa, per dimostrare o provare il tuo coraggio, con la bici dai freni scassati... oltre un certo punto, scegliere era comunque farsi male. Un male che partiva dal rischiare di scassarsi le scarpe, poi di rosicchiarsi i ginocchi, e via via sempre peggio, mentre i secondi passavano e la velocità da te iniziata ti inghiottiva sempre più, sempre peggio. Ecco, forse ho capito allora cos'era davvero il coraggio: non iniziare a cuor leggero la discesa, ma consapevolmente fermarsi anche sapendo che sarebbe costata. Ma prima di arrivare a spaccarsi la testa, che sarebbe il costo finale del "non scegliere". Questo è un coraggio che pare solo dettato da un po' di saggezza, merce davvero rara in adolescenza (infatti, l'esempio che di getto mi è venuto è di prima, di quando si è bambini). Non sono certo un sociologo, ma pare che la nostra vita di oggi, la nostra cultura di ora abbia così poca saggezza, dentro, che forse è adolescenziale pure lei. Magari evolverà ulteriormente, ma il rischio è che finisca nella direzione tracciata dai vari Giovanni che la popolano e che ne sono forse i primi o i più estremi epigoni.
Chi lo sa...
Ora, ognuno di noi è in qualche modo erede di tutti i Giovanni che abbiamo conosciuto o anche solo sfiorato nella nostra vita.
Anche noi possiamo scegliere, dopo che ci hanno lasciato: scegliere di averli guardati o anche solo visti passare, e poi girare altrove lo sguardo; o, piuttosto, scegliere di esserci lasciati toccare dalla loro parabola al punto da riconoscerne una traccia.
Una qualsiasi.
Che faccia da campanello di allarme.
E poi tenerla saggiamente a mente, questa traccia.
Per noi, nel caso ci serva per riconoscere prima la pendenza della discesa, o lo stato dei freni, o l'assurdità della prova. Oppure, per riconoscere quando saltare dalla bici anche se ci faremo male.
Ma soprattutto per gli altri, per chi ci sta più o meno vicino. Per avere il coraggio di raccontare loro la storia dei Giovanni che rischiano di diventare, e di averlo al momento giusto, questo coraggio di parlare. Giusto per loro.
Un abbraccio.
Bruno V
Grazie a tutti, siete molto sensibili ragazzi.
Non mi aspettavo di meno da voi.
Seba
Sono una mamma...
ho perso mio figlio...Luca era bello,sano, era una parte di me.Perchè i figli non sono solo un pezzo di cuore ma sono anche un pezzo di anima e di cervello e di corpo. Si è lasciato trasportare da tutto e da tutti come Giovanni. Io ho capito troppo tardi.Quando è nato mi sono dedicata a lui completamente, quando poi è cresciuto ho voluto ricominciare a lavorare, a prendermi del tempo per me, per la mia vita...quanti errori!! Non è vero che nel rapporto con i figli non conta la quantità, conta invece che loro sappiano di averci sempre al loro fianco, di esserci quando hanno bisogno e di lasciarli andare quando lo chiedono.Non diamo la colpa alla scuola, alla società, agli amici, la colpa è principalmente nostra.Noi dove eravamo quando loro cercavano il nostro aiuto? Erano con le baby sitter, con i nonni o a qualche favoloso centro estivo? Tutte cose meravigliose ma noi mamme dobbiamo saper rinunciare alla nostra realizzazione e voi papà dovete esserci in ogni vostro minuto libero dal lavoro invece di andare a correre o a bere qualche birra con gli amici. I figli sono parte di noi, non c'è bene più grande.Quale genitore non pensa al proprio figlio migliaia di volte al giorno? Quante ansie quando ha la febbre per la prima volta, quando soffre per una presa in giro, quando affronta il primo esame a scuola....Non auguro a nessuno di passare il mio calvario in una vita che non è più vita, in una famiglia che è ormai distrutta, in una foto su una lapide da visitare ogni giorno. Godete con loro delle loro gioie e soffrite con loro delle loro pene...
Scusa Sebastiano se ho approfittato di questo spazio per uno sfogo ed un piccolo appello.
Grazie
Difficile aggiungere qualcosa. Ggrazie a te per avere lasciato questo post.
Sebastiano
Ciao Giovanni,
molte volte ho provato a scriverti. Quando ti chiamavi Iacopo, Lorenzo, Enrico, Marco, Chicca, Barbara, Moreno. Ma non ho mai trovato un vero coraggio.
Lo faccio ora: eco alle parole di un amico.
Siamo fragili quando succede questo: affrontare il non senso delle cose che non capiamo, o che non accettiamo. E’ doloroso vivere scelte che ci coinvolgono come spettatori.
Hai seguito il tuo destino, sei nato già con la presunzione di sapere già qual’è la strada. Senza darti delle posibilità hai odiato la vita da subito. O le hai corso contro, che è uguale.
La troppa foga di vivere forse produce gli stessi risultati. Per te, veloce.
Ma tu l’hai fatto per gli altri. Hai lasciato una lezione a tutti noi spettatori: hai applaudito il pubblico distratto del tuo esistere. Con scherno.
Ora io, o forse noi, sappiamo che non siamo pubblico. Ma siamo attori a nostra volta. Possiamo parlare e ascoltare, tacere immobili o agire.
La prossima volta ti tendo la mano prima.
Se non l’accetti: te la prendo.
Bonne chances.
f.
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